La stanza delle poche righe di Alessandro Assiri

La stanza delle poche righe
Foto: Eunice Franchi


La stanza delle poche righe è un poema in versi edito per i tipi di Manni nel 2010, l’ho letto in Gennaio e mi ha incantata. Sì proprio così, i versi di Alessandro Assiri hanno avuto su di me l’effetto di un incantesimo, mi hanno trascinata nell’amore vissuto tra le «crepe», «l’asfalto», le «parole incrinate», quelle «mute». La parola qui si fa viva, ora «scritta screpolata», quasi «anagramma», che sogna, che se ne va «a zonzo». Parole «corte» che diventano regali, di carne, si trasformano in uomini o oggetti da assecondare, la parola sembra essere unica certezza nel «vuoto», appiglio di fronte al nulla. Come scrive l’autore nelle prime pagine: «Ogni linguaggio cerca una parola per esserci, per pungersi, e risvegliarsi da un’indifferenza».

Alessandro Assiri abita una «città disumana» in cui incontriamo pozzanghere, pioggia, gambe e tacchi che «ridisegnano universi», e «piedi a bagno nel cielo». Luogo dove tenta di precipitare e poi trattenere, recuperare nello «sbottonarsi di un pensiero» e poi correre, rotolare, che fatica se «si ama solo trascinando». È una città, un luogo che accade adesso, nel presente, un tempo «anchilosato», «rattrappito di stagioni», è adesso che accade la vita, accade l’amore. Il tempo nei versi del poeta si fa anche venturo: «come ogni futuro da costruire/ come tutto quello che non arriva/ ma deve venire». È, ancora, anticipazione, «sintomo» di futuro, una sensazione in divenire, fuga.

Un poema, questo di Assiri, che si svolge tra la terra e il cielo, e nel cielo abitano «solo digiuni d’infinito». I «viali dietro casa», il «muro che si scrosta», «stanze di casa nei giorni di carne», sono luoghi in cui si consuma l’amore, dove a volte l’amore manca e abita il silenzio, luoghi della carne e del pane, del pianto e di quattro mani, di versi taciuti. La stanza delle poche righe ci mette di fronte alle numerose prospettive della parola, parole che generano stanze che creano casa.

Stabilisce prima il tuo nome
questa gente di penombra

In fondo a te c’è un pressappoco,
come un forse nelle vene
o un venerdì di nuovo

e dove si rovista per cercarsi
si accumula la carta

**

ma qui lo sai non ci si salva
si appare solo all’improvviso
non ci si aiuta, si segue la voce
come inquilini d’inverno

divenire è per un attimo confondersi
succubi d’inchiostro
appoggiarsi all’infrangibile.

**

Di stanza in stanza
così divento casa
al plurale immaginando
mattone su mattone
costruire lontananza
con la calce dell’addio.

a capo
così la pagina non finisce
come spazio bianco
delle paure orizzontali
ma prosegue
amplificandosi
dal basso

**

di stanza in stanza
così divento casa
al plurale immaginando
mattone su mattone
costruire lontananza
con la calce dell’addio

 

Alessia Bronico

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