Intervista a Eugenio Barba – Parte Seconda

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Intervista a Eugenio Barba – Parte Seconda

Vi Propongo la seconda ed ultima parte dell’intervista condotta in Aprile al regista italiano Eugenio Barba. La prima parte la potrete trovare cliccando qui. Ribadisco la mia gioia nell’averlo incontrato.

4. Dice spesso che il teatro è dentro di noi, quindi tutti possono fare teatro?

Si, indubbiamente tutti. Alla fine si potrebbe dire che esistono due tipi di scene, una con la quale ci presentiamo in ruoli diversi ogni giorno: come amante, come intellettuale, colui che dice cose sagge, come padre, come vagabondo, un viaggiatore e l’altro nell’avere il teatro professionista. Non ci sono dubbi che l’istinto ha questo agire, simulare, creare relazioni attraverso le diverse maniere di stabilire lo spettacolo come festa, come divertimento, come intrattenimento, come opera didattica, terapeutica, poetica, spirituale, vediamo che è dappertutto nella storia dell’umanità.

5. In un’intervista lei ha detto: “La rivolta non si può insegnare, è un’esigenza personale”. Qual è stata l’esigenza che l’ha condotta a rivoluzionare il teatro?

Io non ho rivoluzionato il teatro (ride n.d.r.), non credo d’averlo fatto, non so neanche se ho fatto una rivoluzione, ma io parlo spesso di rifiuto e di non accettare quello che sembra irrevocabile. Il primo rifiuto è stato non accettare la morte di mio padre, ero un bambino di dieci anni, non sono mai riuscito a capire perché dovesse morire mio padre e non il padre del figlio del vicino, lo trovo profondamente ingiusto e così poco simpatico, quindi ho subito un’ingiustizia che mi ha portato alla strada della rivoluzione. L’esperienza più formativa per me è stata l’emigrazione, ho lasciato l’Italia a diciotto anni e sono andato in Norvegia dove ho cominciato a lavorare come operaio in un’officina. Io ho frequentato il liceo classico, negli anni cinquanta s’imparavano il latino, il greco, la filosofia, la storia dell’arte ma non s’imparava una lingua straniera. Per cui da un giorno all’altro sono diventato muto, sono diventato stupido. Io che ero considerato abbastanza intelligente nella scuola, mi sono ritrovato ad essere trattato come un ritardato, la gente mi parlava anche in maniera semplice, elementare, e io non capivo, per mesi. Era terribile perché io lavoravo, mi guadagnavo il pane, se non riuscivo a capire commettevo degli errori sul lavoro, ero saldatore. Quindi questa è stata l’esperienza più formativa perché mi ha obbligato ad acuire tutti i sensi e cercare di decifrare cosa dicesse la persona attraverso la sonorità e attraverso il modo in cui erano seduti, come guardavano, la sincronizzazione comportamentale. Parlo del modo in cui la gente annuisce balla con me (riferendosi a me n.d.r.), tutto questo mi ha formato come regista. I miei attori vengono da diverse nazioni, arrivano da sei o sette nazioni, non parlano la stessa lingua del posto dove viviamo, in Danimarca, quindi io devo realizzare uno spettacolo dove l’uso della parola, il fattore comprensione razionale, concettuale è molto limitato. Se io faccio dire qualcosa in danese ad un attore che viene dal Canada e dal Cile è evidente che la prima informazione che lo spettatore danese ascolta è: questo è uno straniero che parla danese e sta dicendo “To be or not to be”. Quindi, questa esperienza dell’emigrazione mi ha permesso di lavorare molto sull’aspetto cinestetico, cioè la consapevolezza di come il mio modo di agire, di comportarmi ha un impatto sul sistema nervoso dello spettatore. Per cui, per è importante che lo spettatore abbia la sensazione che sia stato detto qualcosa di essenziale, un po’ come un’enigma che mi ha colpito molto emotivamente. In realtà si rivolge a me direttamente questo messaggio, non è un’opera d’arte che deve essere giudicata dal punto di vista estetico. È come se lo spettacolo consegnasse un messaggio cifrato attraverso una quantità di stimoli sensoriali.

6. Lei parla spesso di morte, prima ha fatto accenno alla morte di suo padre, mi viene da chiederle: qual è l’aspetto della vita che maggiormente la incuriosisce?

Penso che sia Eros. Ci sono due grandi misteri, straordinari: uno è Eros, l’altro è Thanatos. Il resto è silenzio.

Alessia Bronico

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